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L'archeologia conferma: la Bibbia ha ragione e questa è terra nostra

Gli scavi documentano la permanente presenza ebraica nella Terra d’Israele. Emozione a Masada. Le prime scoperte di Robinson. L’importanza della sinagoga di Bet Alfa. Il rapporto fra attività archeologiche e sionismo. Il negazionismo antisraeliano.

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1. Area nord degli scavi di Masada. Una stanza che fungeva da passaggio fra i depositi e la reggia di Erode. Siamo nel 1965. Nella stanza, insieme ai due volontari con cui lavoravo, trovo quelle che sembravano tessere per il razionamento del cibo. Capisco che poteva essere una stanza importante. Lavo immediatamente ogni più piccolo oggetto estratto dalla terra per vedere se vi sia scritto qualcosa. Alla fine della giornata, insieme a diversi altri reperti, avevo accumulato undici bossoli con undici nomi che tutti tranne uno – ben Yair – sembravano nomignoli. Yigael Yadin, che era a capo della campagna di scavi, non ebbe il minimo dubbio: avevamo riportato alla luce la testimonianza di uno dei momenti più drammatici della storia d’Israele: l’estrazione a sorte dei dieci uomini i quali, unitamente al capo della rivolta Eleazar ben Yair, avrebbero dovuto portare a termine il suicidio di massa, per non far cadere vivo nelle mani della X Legione romana nessuno degli assediati. Esattamente come descritto da Giuseppe Flavio nella sua Guerra giudaica. Una scoperta che non cambiava forse il quadro sostanziale dei risultati della ricerca archeologica a Masada, ma che provocò fortissime emozioni in me e in tutto il mondo ebraico: un altro evento considerato da molti un mito assumeva definiti contorni storici.

2. Quando ero molto giovane, verso la fine dei miei studi, vissi un evento senz’altro meno emozionante ma anch’esso importante per la mia futura vita professionale. Mi chiamarono dal ministero degli Esteri israeliano e mi chiesero se volevo scrivere e curare una pubblicazione intorno al legame del popolo ebraico con la Terra d’Israele. Ne venne fuori un libretto che fu poi molto popolare e citato: Generazioni dimenticate. Era organizzato in secoli e per ogni secolo riportava e descriveva le evidenze archeologiche e storiche che riguardavano la presenza ebraica in Terra d’Israele. Fu da allora – forse grazie all’occasione che mi venne offerta di fare questo lavoro – che legai in modo irresolubile due realtà: il mio amore per l’archeologia con il fatto di essere ebreo in Terra d’Israele.
Quante volte abbiamo letto o sentito espressioni come «una diaspora durata duemila anni», «il ritorno del popolo ebraico alla terra dopo duemila anni». Non nel numero, ma nel concetto stesso c’è un errore fondamentale. Sono state rinvenute liste che indicano precisamente i luoghi dove trovarono rifugio e si insediarono in Galilea le ventiquattro famiglie sacerdotali che fuggirono da Gerusalemme dopo la distruzione del Tempio. Dobbiamo capire che si trattava di famiglie importanti, alle quali veniva riservato grande onore in quanto responsabili di quel culto di Gerusalemme interrotto dalla distruzione del Tempio, ma che gli ebrei di allora speravano di poter rinnovare quanto prima. Un onore che è documentato nell’usanza di scolpire su lastre per lo più di marmo, rinvenute in antiche sinagoghe anche fuori da Israele, i nomi di queste famiglie e aggiungervi preghiere in loro onore. Questi nomi sono stati in molti casi conservati nei toponimi arabi che conosciamo oggi: Saḫnīn, ‘Ibillīn, ‘Arrāba e via dicendo, erano a loro tempo insediamenti ebraici.
Non c’è dubbio che le circostanze storiche abbiano portato la maggioranza del popolo ebraico a trovarsi fuori dalla Terra d’Israele; ma anche nei periodi più difficili – quando i romani non lasciavano pietra su pietra a Gerusalemme, quando il grande impero accettava la fede cristiana e iniziava un’impari competizione fra cristiani ed ebrei sui luoghi e i simboli di culto, quando domini musulmani li tenevano in uno stato di inferiorità – anche allora e senza alcuna interruzione gli ebrei hanno continuato a vivere in Terra d’Israele, a costruire abitazioni e luoghi di culto e a produrre opere quali il Talmud gerosolimitano, come pure opere letterarie, filosofiche eccetera. È interessante notare che nei periodi in cui c’era una competizione con un’altra religione (prima il cristianesimo e poi l’islam) sui luoghi santi, gli ebrei – pure in stato di inferiorità – hanno fatto lo sforzo di dimostrare di esserci. Quando l’islam recluse Gerusalemme e l’intera Terra d’Israele, riducendola a provincia remota e marginale, anche gli ebrei sembrarono diminuire la loro attività. Ma abbiamo imparato che, come per contrappunto, quando l’archeologia tace parlano i documenti.

3. Ma andiamo per ordine. Occorre chiarire un punto specifico: l’importanza dell’archeologia come strumento a sostegno di ideologia e geopolitica. Non è certo un fatto nuovo, e l’archeologia non va certo biasimata per questo, nella misura in cui, ovviamente, si muova nei margini dell’onestà intellettuale e dei canoni scientifici. È chiaro che la scoperta di una sinagoga o di un bagno rituale – diciamo del XIII secolo – non può, ancora oggi, non farmi piacere: viene a confermare delle tesi storiche che professionalmente condivido e mette un ulteriore tassello al quadro storico di questo paese. Inoltre, cosa non meno importante su un piano personale, rafforza ciò in cui credo fermamente: il nostro diritto, come popolo ebraico, di vivere in questo paese. Ma la domanda che ci si pone è se il peso di questa responsabilità, di questo compito, sia rimasto invariato nel tempo. E forse ancor prima: da quando l’archeologia ha assunto questa funzione?
L’archeologia come disciplina scientifica è relativamente recente: muove i suoi primi passi solo nel XIX secolo. La sua evoluzione in Terra d’Israele ha indubbiamente dato un significativo contributo ai drammatici cambiamenti politici e geopolitici della regione. Per questo vale senz’altro la pena rivederne i momenti cruciali.
Anche se molti sostengono che la ricerca archeologica moderna iniziò nel 1880, io preferisco una data diversa: il 1838. Fu in quell’anno che giunse in visita ai luoghi santi Edward Robinson, un pastore evangelico americano che rifiutò di accontentarsi dei racconti e delle spiegazioni di guide locali. Non voleva sentir parlare o leggere genericamente di luoghi – voleva che i fedeli potessero vederli, toccarli. Le informazioni testuali dovevano essere messe di fronte a qualcosa di oggettivo e tangibile. Robinson iniziò a lavorare all’identificazione dei luoghi citati nella Bibbia. Fu lui il primo a localizzare Meghiddo. Imparò presto un fatto che molti ancora oggi non sanno o preferiscono non mettere in risalto: molti nomi di villaggi arabi ricalcano antichi nomi biblici, per il semplice fatto che sono stati costruiti su siti che anticamente erano ebraici. Insomma Robinson iniziò a localizzare sulla mappa del paese i siti citati nella Bibbia e nel Nuovo Testamento. Era stata posta una prima base per la ricerca archeologica nella Terra di Israele.
La seconda tappa è databile al 1860, quando fu condotto uno studio che appare probabilmente ai nostri occhi un po’ strano: Gerusalemme venne colpita in quel periodo da un’epidemia di colera attribuita al sistema idrico turco-ottomano basato su pozzi. Il governo centrale ottomano si rivolse all’esercito inglese chiedendo che il corpo dei genieri disegnasse una mappa precisa delle risorse di acqua potabile cui gli abitanti di Gerusalemme attingevano. Nel 1864 venne inviato nel paese Charles Wilson – personaggio che ebbe un’importanza fondamentale nella ricerca archeologica di Israele. Svolse seriamente il lavoro di cui era incaricato ed ebbe l’occasione di ricevere più che un’impressione di quello che c’era sotto la superficie di Gerusalemme. Riportò fra l’altro alla luce nei pressi del Muro Occidentale l’arco che porta ancora oggi il suo nome e che era uno dei maggiori accessi al Tempio. Al ritorno in patria segnalò il fatto che il sottosuolo di Gerusalemme offriva delle importanti possibilità per capire la storia antica della città. Ovviamente, come ogni buon cristiano, Wilson era interessato soprattutto alla storia della Gerusalemme dei giorni di Gesù. Ma a parte il punto di vista religioso, studiare i giorni di Gesù significava di fatto studiare il periodo del Secondo Tempio e dare validità storica all’antica presenza ebraica nella città. Fu allora fondato il Palestine Exploration Fund, che esiste tutt’oggi. Esso inviò nel paese nel 1867 Charles Warren, il quale insieme ai suoi collaboratori eseguì la mappatura più completa di tutti i siti storici conosciuti allora in Terra d’Israele. Rimase fino al 1870 e grazie al suo lavoro per la prima volta ci si rese conto che questa terra era cosparsa in ogni sua regione di luoghi chiaramente corrispondenti ai racconti biblici. Warren basò le sue ricerche sui testi del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma anche su opere di autori successivi, primo fra tutti Giuseppe Flavio.

4. Fu questo il periodo in cui l’archeologia assunse la fisionomia di disciplina scientifica e iniziò a discostarsi dalla razzia di reperti archeologici che aveva contraddistinto le spedizioni del passato e di cui i musei europei sono pieni. Fu questa, forse, la prima volta che la neonata disciplina archeologica venne usata anche con scopi geopolitici. In Terra d’Israele, regione dell’impero turco-ottomano che stava dando chiari segnali di sfaldamento, le ricerche archeologiche sostenute da vari paesi europei direttamente o attraverso istituti accademici o religiosi diventarono delle eccellenti coperture per stabilire la propria presenza e influenza. A volte i governi acquistarono delle aree in cui vennero effettuati scavi archeologici: fu il caso del governo francese che acquisì quella delle cosiddette Tombe dei re, scavate da Félicien de Soulcy. Fatto curioso è che le tombe appartengono non a re ebrei ma a sovrani del regno mesopotamico di Adiabene che nel I secolo venne giudaizzato. De Soulcy scavò anche Masada e vari altri luoghi in Medio Oriente.
In quel periodo un numero sempre maggiore di organizzazioni, istituti e archeologi fu coinvolto in scavi in Terra d’Israele. Tutti avevano una missione ufficiale – seguire i passi di Gesù e degli inizi del cristianesimo – ma per molti di loro si trattava di un modo per mantenere una presenza legittima in Terrasanta. Ormai la diga era stata aperta e il flusso di scoperte con cui venivano identificate località menzionate nei testi biblici era divenuto incontenibile.

5. Gli anni tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX furono anche testimoni della nascita del sionismo e delle prime ondate di immigrazione ebraica in Terra d’Israele. All’archeologia che vedeva come propria principale missione quella di ricostruire la storia di Gesù e del primo cristianesimo si aggiunge un nuovo orientamento: nel 1913 viene fondata la Israel Exploration Society che incentrò la sua ricerca archeologica su un punto di vista ebraico. Nello stesso anno intellettuali ebrei francesi riuscirono a convincere la famiglia Rothschild a finanziare degli scavi ebraici e perfino ad acquistare tutto il terreno contenente la collina che l’archeologo Hermann Guthe aveva indicato come l’antica e storica Città di Davide. Fra l’altro, è grazie a quell’acquisto che oggi è possibile procedere alla ricerca archeologica in questa zona senza che ciò sollevi proteste, trattandosi di un’area di proprietà dello Stato d’Israele da quando la famiglia Rothschild gliel’ha trasferita. È qui che avviene il grande salto: quest’area è il punto di congiunzione che lega la storia del periodo del Secondo Tempio – ormai identificata e visibile in moltissimi siti già scavati – con il periodo del Primo Tempio, di cui non esisteva un solo reperto identificabile e documentato.
Purtroppo, sono quelli gli anni in cui scoppiò la prima guerra mondiale e tutta l’attività archeologica in Terra d’Israele si fermò per circa dieci anni. Riprenderà solo negli anni Venti. Importantissima eccezione fu la scoperta della sinagoga di Na‘aran, vicina a Gerico, risalente al VI secolo, durante il periodo bizantino. Fu opera di studiosi domenicani, che scavavano mentre nei pressi di Gerico si combatteva.
Dopo la guerra questa regione subì cambiamenti drammatici: l’impero turco-ottomano, che l’aveva dominata per centinaia di anni, si era nel frattempo sgretolato e la Terra d’Israele finì sotto il mandato britannico. Molti ricercatori, soprattutto inglesi, e innumerevoli scavi in tutto il paese continuarono ad ampliare le conoscenze sul suo passato. La maggior parte della ricerca era ancora incanalata verso il periodo del Secondo Tempio e gli inizi del cristianesimo. Iniziavano comunque a divenire pubblici studi – come quello sulle sinagoghe – che offrivano un quadro diverso da quello dell’abbandono e del vuoto ebraico e, al contrario, legavano nomi e luoghi citati dalle fonti ebraiche post-bibliche (Mishnà e Talmud) a siti tangibili.
L’evento che personalmente considero come il momento in cui la leadership ebraica si rese conto che l’archeologia era uno strumento politico di primaria importanza per la «causa» fu la scoperta nel 1928 della sinagoga di Bet Alfa, che risale al 540. Ciò accadde durante i lavori per la costruzione del kibbutz Chefzi-ba. Per la prima volta venne compreso un fatto importantissimo: tanto era fondamentale provare la sostanziale veridicità storica delle fonti bibliche a sostegno dei diritti avanzati come discendenti del popolo esiliato o costretto a esiliare, quanto era importante dimostrare l’ininterrotta presenza ebraica in Terra d’Israele. Bet Alfa è un anello importantissimo, anche perché la sua data di fondazione risale all’epoca dell’imperatore Giustiniano. Già da solo – ma ancor più insieme a quelli forniti dai numerosissimi reperti e siti che sarebbero poi stati scoperti – questo dato fa cadere l’idea dei duemila anni di lontananza degli ebrei dalla Terra d’Israele. E poiché l’archeologia va a braccetto con la documentazione storica, scavi e ritrovamenti hanno avuto conferme e nuove indicazioni dai variegatissimi materiali rinvenuti nella Ghenizah del Cairo (a partire dal 1885), in cui sono presenti documenti che partono dal IX e arrivano fino al XIX secolo.

6. La concezione dell’archeologia al servizio del sionismo continua fino a dopo la fondazione dello Stato d’Israele e per molti anni ancora, almeno fino al 1967. Ricorderò qui solo alcuni punti salienti: l’acquisto prima della fondazione dello Stato di sette rotoli del Mar Morto (la scoperta era stata fatta casualmente nel 1947) e la loro graduale pubblicazione; la scoperta nel 1961, durante una campagna di scavi nel deserto della Giudea, di lettere del periodo di Shimon bar Kokhbah, comprese missive firmate di suo pugno; la scoperta di villaggi ebraico-cristiani in cui si percepisce il tentativo di combinare le due fedi; gli scavi a Masada, che iniziarono nel 1963 e dove ebbi l’onore di rinvenire gli undici bossoli di cui ho già parlato. Ognuna di queste scoperte ha avuto un enorme valore nel disegnare, documentare e provare quella ininterrotta linea storica che pian piano va prolungandosi fino a tempi più remoti della narrazione biblica e che trova, all’altro estremo, lo Stato d’Israele dei nostri giorni.
La guerra dei Sei giorni, nel 1967, portò a una nuova situazione: il controllo israeliano di territori che precedentemente ci erano preclusi faceva cadere molte limitazioni alla ricerca archeologica. È il periodo in cui si scoprono molte e importanti sinagoghe nel Golan preso ai siriani, come pure si individuano i resti di siti citati in vari documenti (anche in questo caso Giuseppe Flavio è la fonte primaria). Ma cominciò a farsi strada nell’archeologia ufficiale di Israele anche un’altra importante novità: la ricerca archeologica iniziò a essere meno orientata al sostegno di tesi geopolitiche e rivendicazioni storiche. Da quel momento il suo campo diventò molto più ampio. Ne ha goduto – tanto per fare l’esempio forse più eclatante – anche la ricostruzione della vita di Gesù. Accanto al villaggio di Cana in cui viene narrato il miracolo del vino è stato identificato l’antico insediamento ebraico che ne è stato il probabile teatro; a Nazaret sono state scoperte per la prima volta abitazioni del periodo del Secondo Tempio, quando visse Gesù; io stesso da alcuni anni sto lavorando alla comprensione della figura e dell’operato di Gesù all’interno del Tempio – il teatro della maggioranza degli eventi a lui legati nel suo periodo di permanenza a Gerusalemme. Nonostante l’indifendibile negazione musulmana dell’esistenza stessa del Tempio (e c’è chi ancora nega l’esistenza stessa di un popolo ebraico nell’antica Terra d’Israele) e di tutto quello che significava in termini di vita quotidiana in quel periodo, mi trovo spessissimo a indicare a colleghi, turisti e credenti luoghi che sono stati identificati con una precisione talvolta assoluta. E non è raro che io sia costretto a sorprenderli e perfino a rovinare loro delle convinzioni acquisite e comunemente riconosciute: infatti, non sempre (per non dire raramente) le evidenze archeologiche confermano i percorsi tradizionali. L’esempio più eclatante è forse la via Dolorosa, il cui vero tragitto non poteva assolutamente seguire quello che conosciamo oggi.
Che sia chiaro: non esiste probabilmente un archeologo ebreo che non aspiri a riportare alla luce almeno un’antica sinagoga. Io ho avuto l’onore di poterlo fare scavando la sinagoga di Bet Shean, che portò a un’ulteriore e curiosissima conferma basata sul confronto con i testi ebraici. Nel corso degli scavi ho portato alla luce un’iscrizione e leggendola mi sono subito reso conto che conteneva degli errori ortografici: quattro lettere erano spesso scambiate. Ebbene, nella Mishnah è scritto chiaramente che non si deve far leggere in pubblico la Torah (la lettura pubblica richiede una precisione assoluta per esentare dall’obbligo personale tutti i presenti, n.d.t.) a persone di Haifa e Bet Shean perché «non sanno distinguere fra le lettere Alef e Ayn e fra Hey e Chet». Insomma, nessun collega si tirerebbe indietro davanti allo scavo di un sito significativo ebraico. Tuttavia, oggi siamo in una fase diversa; molti archeologi israeliani stanno subendo una profonda trasformazione. La Terra d’Israele come campo di ricerca archeologica non ha più un valore esclusivamente ebraico, ma un valore assoluto. Cananeo, giudeo-cristiano, bizantino, islamico – non è più così importante; fintanto che il sito in questione fa parte della storia di questa terra, merita di essere studiato.
In questi giorni io sto scrivendo sulla città di Gerusalemme nel periodo degli Ayyubidi, che successero a Ṣalāḥ al-Dīn (il Saladino). Nonostante le mie critiche e riserve politiche sul mondo islamico e i miei vicini, questo periodo fa parte della storia di questo paese e io voglio conoscerlo. Ho colleghi ebrei che sono oggi autorità mondiali nel campo della ceramica islamica, fondamentale per la datazione dei ritrovamenti. E questo mentre i miei colleghi musulmani continuano a sostenere che prima di al-Aqṣā c’era un’altra moschea e prima di questa ancora una moschea e così via fino ad Abramo (loro primo profeta) che ricevette da Dio la Ka‘ba, la pietra che si trova all’interno della Mecca. Nulla che solo possa ricordare qualcosa di pre-islamico. Tralasciamo che l’accesso all’interno delle moschee è consentito solo a musulmani. Va ricordato però che alle guide che accompagnano i turisti nella Spianata delle Moschee è perentoriamente vietato di tenere aperti libri o mostrare illustrazioni che potrebbero alludere al fatto che quella fosse precedentemente la spianata del Tempio. Insomma, nessuna apertura al benché minimo dialogo, se non politico, almeno scientifico.

7. Il problema che abbiamo nel campo dell’archeologia è riscontrabile in modo analogo nella ricerca storica, laddove siamo testimoni di clamorosi negazionismi e di creazione di falsi a fini ideologici e talvolta propagandistici. Si arriva a estremi che accademicamente sfiorano – no, in realtà superano – il ridicolo. Proverbiale è l’avvicinamento fra filistei e palestinesi, come se questi fossero loro discendenti, o la presentazione di appartenenze genealogiche che non hanno alcun legame con la realtà storica. Tanto per fare un esempio, possiamo ricordare la ricorrente menzione e rivendicazione di Abū ‘Alā’ di essere un lontanissimo discendente degli antichi abitanti di Gerico, quando è ampiamente documentato che la sua famiglia, appartenente a una tribù beduina, si spostò e si insediò a Gerico nel periodo del mandato britannico. Contro questi dubbi usi della storia e parallelamente al nostro lavoro archeologico noi abbiamo cercato documenti, prove, abbiamo incrociato informazioni e siamo arrivati a trovare in alcuni casi famiglie legate al periodo del Secondo Tempio in un filo documentabile.
L’archeologia israeliana ha smesso dal 1967 di essere strumento geopolitico dello Stato ebraico e in buona misura del sionismo. Questo non significa che le evidenze raggiunte e quelle che si aggiungeranno in seguito non abbiano la loro importanza, bensì che quelle prove che lo Stato e il sionismo cercavano a sostegno delle proprie rivendicazioni sono ormai sul tavolo, visibili a tutti coloro che vogliono vederle. Qualunque nuova scoperta sarà benvenuta, ma non dobbiamo dimostrare più niente. Lo Stato d’Israele, i suoi governi e l’agenzia che ha questa funzione in ambito statale (la Israel Antiquities Authorithy, Iaa, n.d.t.), si sono già da molti anni distaccati dalla preferenza data a scavi ebraici. L’opposizione a progetti di sviluppo di «archeologia turistica» – che hanno sollevato feroci polemiche e discussioni internazionali – deriva spesso solo da cieche considerazioni politiche. Ad esempio il percorso archeologico che da est passa a sud e finisce a ovest delle mura della Città Vecchia contiene siti importantissimi sia per l’ebraismo sia per il cristianesimo: la Tomba di Miriam, l’Orto del Getsemani, la Valle di Kidron con la Città di David che sta venendo piano piano alla luce, le tombe ebraiche che sono poi state usate da monaci bizantini, la piscina di Shiloah, sito di un miracolo di Gesù, il monastero di Sant’Onofrio, il campo di Giuda Escariota e via via fino alla valle della Gehenna e alla piscina del Sultano. La Iaa non fa assolutamente nessuna differenza se il sito viene identificato come ebraico, cristiano, islamico o cananeo. A pensarci bene, è uno dei pochi organismi in cui archeologi o lavoratori ebrei, musulmani e cristiani lavorano gomito a gomito senza particolarismi o reciproci embarghi intellettuali.
Vorremmo continuare su questa strada, sempre che il mondo con i suoi embarghi accademici e la sua ostilità verso Israele non ci costringa a ritornare sui nostri passi.

(traduzione di Cesare Pavoncello)