Israele ha fatto dei passi avanti verso la pace. Adesso tocca al mondo arabo

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di Claudio Pagliara

Gerusalemme. Dieci anni sono passati dal fallimento dei negoziati di Camp David, dalla V, segno di vittoria, disegnata dalle dita di Arafat al rientro in patria, dalla passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee, dall’inizio della lunga stagione degli attentati suicidi, della controffensiva israeliana contro le infrastrutture del terrore. E’ stata senza alcun dubbio, la fase più sanguinosa del conflitto israelo palestinese – oltre mille morti israeliani, oltre 3000 palestinesi, battezzata come la “Seconda Intifada”, che come spesso accade nell’era delle guerre non convenzionali, non ha né una data di inizio unanimemente accettata né tantomeno una data certa finale.

Dieci anni dopo, i due leader duellanti sono entrambi usciti di scena. Ariel Sharon, a causa di un ictus che lo ha sprofondato nella regno tra la vita e la morte. Yasser Arafat, ucciso da una malattia mai ufficialmente diagnosticata, fatto che continua ad alimentare la teoria del complotto, tanto popolare nel mondo arabo. E’ significativo che il decennale dell’Intifada non sia stato ricordato, con cerimonie ufficiali, né a Gerusalemme né a Ramallah. Solo a Gaza, Hamas ne ha issato la bandiera. Il leader del movimento islamico, al Zahar, ne ha approfittato per fare una rivelazione, di un certo peso, purtroppo quasi ignorata dalla stampa italiana. Secondo al Zahar, Arafat chiese ad Hamas di lanciare attacchi nel cuore di Israele quando si reputò insoddisfatto dell’esito dei negoziati di Camp David. Finora, l’opinione prevalente era che il rais avesse usato a questo scopo il solo braccio militare di Fatah, le Brigate al Aqsa. Se la rivelazione fosse vera, confermerebbe che Arafat, lungi dal lanciare l’Intifada con lo scopo di ottenere maggiori concessioni da Israele, nel 2000 aveva preso la decisione strategica di distruggere il nemico col terrorismo, gettando in qualche modo la maschera.

Dopo 3 anni in cui Israele non conosce attentati suicidi, la seconda intifada può dirsi terminata, anche se la minaccia posta da Hamas a Gaza ne costituisce in qualche modo una continuazione. Chi l’ha vinta? La risposta è scontata: Israele. Sul piano militare, con il colpo inflitto alle organizzazioni terroristiche. Ma non solo. La gente ha mostrato una grande capacità di tenuta. Se i registi dell’Intifada pensavano di buttare gli ebrei al mare con il terrore, sono stati clamorosamente smentiti dai fatti. Nella città sotto attacco terroristico, la vita non si è fermata. Sia pure tra eccezionali misure di sicurezza, il Paese ha continuato a funzionare. L’economia, dopo un iniziale tonfo, ha ripreso a correre. Diametralmente opposto il quadro nei Territori palestinesi. L’arma del terrorismo si è rivelata distruttrice per chi l’ha impugnata. L’Intifada ha cancellato con un tratto di penna rosso sangue il boom economico nei Territori del dopo accordi di Oslo. Nella vita quotidiana dei palestinesi è entrata l’umiliante esperienza dei check point. La barriera costruita in Cisgiordania per fermare i kamikaze infligge loro grandi sofferenze.

L’impatto sulle prospettive di pace della stagione sanguinosa del 2000-2005 è profondo. Gli israeliani hanno perso fiducia nella possibilità di un accordo. Separati ora anche fisicamente dai palestinesi, hanno declassato la soluzione del conflitto al quinto posto delle loro priorità, dopo l’educazione, la criminalità, la sicurezza e la povertà. Sul piano politico, l’ondata di terrore ha definitivamente cambiato l’equilibrio delle forze. Nei Territori Palestinesi, si è creata una frattura insanabile, Gaza sotto controllo di Hamas e la Cisgiordania di Abu Mazen e Salam Fayyad. In Israele, l’Indifada ha prodotto un travaso di voti da sinistra, regista degli accordi di Oslo e la destra che vi si era opposta. Al contempo però ha infranto per sempre il sogno della Grande Israele. Ha fatto emergere lo spettro di uno stato binazionale. Ha mostrato i limiti dell’uso della forza e l’importanza di salvaguardare la legittimità internazionale. Questi elementi spiegano la rivoluzione ideologica che ha portato, ognuno con i suoi tempi e le sue modalità, Sharon, Olmert, Tzippi Livni e Netanyahu ad abbracciare la formula “due stati per due popoli”, dopo averla a lungo combattuta.

Leggere la mappa geopolitica di Israele con vecchi schemi, come fanno in molti in Europa, non consente di cogliere i segnali di una crescente volontà israeliana di trovare una via d’uscita. Negli ultimi 5 anni, Sharon si è ritirato da Gaza, Olmert ha offerto di porre i luoghi santi di Gerusalemme sotto una autorità internazionale. Netanyahu ha congelato per 10 mesi, fatto senza precedenti, gli insediamenti, alcuni dei quali sono città di decine di migliaia di abitanti. Una marcia di avvicinamento verso un’intesa possibile che deve essere favorita da concessioni anche dall’altra parte, quella palestinese. La difficoltà di Abu Mazen sono note, una per tutte, il suo potere non si estende alla Striscia di Gaza. Ma è giunto il momento che il mondo arabo, preoccupato più di Israele delle mire egemoniche iraniane, esca dalla sua ambiguità e dia un contributo realistico a trovare un compromesso su i due nodi più intricati, Gerusalemme e rifugiati. L’Europa, in prima fila nel porre pressioni su Israele, bene farebbe a applicarle anche in questa direzione.

6 Ottobre 2010
Fonte: L’Occidentale