La protesta degli ebrei ortodossi a Gerusalemme

La rivolta degli ashkenaziti:

'Prima la Torah, poi lo Stato'

Gerusalemme, 17 giugno 2010. Manifestazione di ebrei ultraortodossi (Uriel Sinai, Getty Images)

Di Aldo Baquis

Al grido di «No alla Corte Suprema, il Signore è il nostro Re», oltre centomila zeloti trascinati dai più importanti rabbini ortodossi fra cui il centenario e carismatico Shalom Yossef Elyashiv hanno inscenato ieri una gigantesca prova di forza a Gerusalemme e a Bené Braq (Tel Aviv) per chiarire che in casi estremi essi non sono disposti a sottostare alle strutture laiche di Israele. In prospettiva, hanno posto sul tavolo la richiesta di una autonomia rabbinica all’interno dello Stato per i loro fedeli, quasi il 10% della popolazione.

La frattura è iniziata in una scuola della colonia ortodossa di Emmanuel (Cisgiordania), quando mesi fa qualcuno ha notato che il cortile aveva un muro divisorio: da una parte c’erano le allieve timorate ashkenazite (di estrazione europea) e dall’altra le timorate sefardite (di famiglie originarie di Paesi arabi). Per entrare nella scuola «Netivei Shalom» (i percorsi della pace) le ashkenazite e le sefardite passavano da ingressi diversi, e facevano ricreazione in ore diverse. Malgrado un primo intervento della Corte Suprema, secondo cui questa discriminazione non poteva sussistere in una scuola che beneficia di finanziamenti pubblici, nei mesi successivi i genitori delle allieve ashkenazite si sono arroccati in una posizione di chiusura. Quasi tutte le allieve sefardite - hanno stabilito - «non hanno un livello spirituale adeguato ». Non si abbigliano a dovere e forse alcuni dei loro parenti hanno addirittura in casa apparecchi televisivi, in aperta ribellione ai divieti rabbinici. Frequentandole, le allieve ashkenazite (tutte appartenenti alla dinastia rabbinica di Salonim, formatasi nel Settecento in Europa) ne avrebbero risentito.

Partita come una questione di carattere educativo, la sfida si è trasformata in una contestazione aperta, frontale, ideologica dei rabbini ortodossi e antisionisti all’autorità dei giudici di Gerusalemme. «Siamo a un minuto di distanza dall’anarchia», ha avvertito la leader di Kadima, Tzipi Livni. Da parte sua la Corte Suprema ha ordinato gli arresti di quaranta coppie di genitori «ribelli». Ieri, mentre distribuivano fra le famiglie di amici e vicini i 180 figli complessivi che saranno adesso destinati a privarsi dei genitori, gli zeloti colpiti dagli ordini di carcerazione avevano indossato i vestiti «buoni» del sabato, si erano calcati gli «streimel» (i cappelli di pelliccia di volpe) ed erano in stato di esaltazione religiosa. «Siamo come gli antichi ebrei di fronte ai persecutori romani, siamo pronti a immolarci » ha detto uno di loro. Più tardi a Bené Brak, davanti a decine di migliaia di zeloti, si è addirittura andati oltre: «Anche se per noi si appronteranno camere a gas, non faremo compromessi sull’educazione dei nostri figli», ha detto uno degli oratori.

Ieri Tel Aviv era più interessata al concerto di Elton John e nemmeno supponeva il gigantesco psicodramma in corso nei sobborghi ortodossi. Perché oltre al fronte più evidente - quello fra i rabbini ashkenaziti e la Corte Suprema (la più autorevole istituzione laica di Israele, assieme con la Knesset) - c’era un secondo fronte: fra l’élite religiosa ashkenazita e quella sefardita che vent’anni fa ha fondato l’influente partito Shas. Dietro alla battaglia di Emmanuel c’è appunto il rabbino Yaakov Yossef, figlio del fondatore di Shas Ovadia Yossef. Ieri gruppi di zeloti lo hanno assalito verbalmente due volte, nella sua abitazione. A suo parere i sefarditi israeliani dovranno dotarsi di istituzioni di alto livello, «per non essere più costretti a bussare alla porte di persone che non ci vogliono ». Ma anche Shas, da decenni partito di governo, ritiene che in casi estremi l’autorità dei rabbini debba prevalere sulla Corte Suprema. Dunque un banco di prova critico per la società israeliana che ha visto ieri un assente importante: il premier Benyamin Netanyahu, che ha preferito disinteressarsi della vicenda.

Fonte: La Stampa, 18 giugno 2010, pag. 19